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Politiche culturali e campagna elettorale

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(Giampiero Muroni) - Sardegna Ventirighe n° 90 - 1/2/2010

Facciamo un gioco: proviamo a immaginare quali saranno, tra qualche mese gli argomenti clou della campagna elettorale per il Comune; cosa diranno i candidati alla carica di Sindaco per assicurarsi il consenso dei sassaresi, quali accuse si lanceranno, di quali promesse riempiranno i loro volantini a condire gli immancabili sorrisi con cui ci “allieteranno” le strade che percorreremo andando al lavoro o a fare la spesa.

Non mancheranno gli slogan evergreen cui siamo abituati: volete che manchi “lo sguardo rivolto al futuro”, quando chi ha memoria della nostra città non può che avere nostalgia per il passato, o i richiami all'ottimismo, stonati rispetto ai timori più che ragionevoli di chi si guarda attorno?
Così come assurgeranno al ruolo di eventi politici la scelta strategica delle rotatorie contrapposta al becero passatismo del partito semaforico, o peggio ancora l'evidente coloritura riformista delle rovine aragonesi resuscitate dalle magnifiche ruspe progressive della Sopraintendenza, cui faranno da contraltare gli alti lai del popolo automobilista, vessato dalle arroganti transenne del potere! Fateci già la bocca: il pastone che ci preparano sarà avaro di prelibatezze – il popolo è bue, diceva quello, ma il foraggio che passa il convento non è sempre fresco di maggese.

Un argomento, però, che, tra gli altri, farà da spartiacque tra destra e sinistra, ci scommetto, sarà la “politica culturale”, tema altisonante con cui dalle trincee contrapposte si lanceranno vicendevoli proclami che alla fine si potranno sintetizzare così: la Giunta uscente rivendicherà una generosa serie di fiori all'occhiello mentre il “competitor” di destra calcherà la mano sulla necessità di una fruibilità di massa delle manifestazioni promosse dalla mano pubblica, giacché senza un po' di circo anche il pane migliore sa di poco.

Un cavallo di battaglia dell'avversario di Ganau sarà il favore goduto in città – e nelle classi popolari soprattutto – delle commedie in vernacolo, vero momento di divertimento identitario da valorizzare a discapito degli eventi di carattere nazionale o internazionale i cui principali cultori appartengono alle classi più elevate. Che se li paghino coi loro soldi, si dirà alla grossa, gli spettacoli d'essai; che gli scarni fondi pubblici si rivolgano invece a garantire l'accesso alla cultura di chi altrimenti non potrebbe, e se anche si tratta di arte per chi la bocca ce l'ha solo buona, che c'è di male? La sinistra al caviale contro la destra dello zimino, a volerla mettere in cucina insomma.

Se siete sopraffatti da dubbi amletici di fronte a una questione messa in termini così “suggestivi”, consolatevi presto: la querelle circa il ruolo delle politiche culturali pubbliche dura da parecchio e non è destinata a risolversi con la scelta del prossimo sindaco di Sassari.
A me, poi, che questi duelli ideologici appassionano poco e sarei contento di abitare in una città in cui le occasioni culturali fossero come delle finestre, cui affacciarsi per vedere qualcos'altro rispetto alla vita di tutti i giorni, interesserebbe piuttosto che si scendesse dall'alto cielo delle polemiche tutto fumo con cui paiono divertirsi tanto i campioni della politica locale, per andare ad assaggiare il piatto che si va a cucinare.
Ad esempio per chiedere conto del valore dato al professionismo degli artisti pagati dai fondi pubblici.

Sul tema gli ardori di bandiera si stemperano e forse entrambi gli schieramenti avrebbero di che meditare circa i criteri seguiti o da seguire nella scelta degli attori culturali che dovrebbero “animare” la città. Ad esempio ci si potrebbe chiedere se, rispetto ad altre priorità relative al contenuto degli spettacoli, non sia più importante privilegiare il grado di professionalità vantata da chi si occupa di realizzare operazioni culturali. E, per fare un esempio piccolo piccolo, se non sia politicamente significativo chiamare a collaborare soggetti con strutture e tradizione che consentano il rispetto di standard qualitativi adeguati alle dimensioni della nostra città anziché flirtare con dilettantismi di stampo amatoriale che considerano il versamento dei contributi previdenziali per gli artisti un optional sacrificabile spesso e volentieri.

Che sia chiaro: nessuno considera l'algido professionismo come parametro unico per meritare l'attenzione dell'ente locale; basta che sia chiara la distinzione tra un'operazione culturale ed una di carattere sociale: consentire l'uso di una piazza a una rassegna rock giovanile, ad esempio, è certo cosa buona e giusta, ma fa parte della seconda categoria.
Fatto questo discrimine, diciamo “formale”, il contenuto del canovaccio smette di essere importante: una gobbula vale quanto il jazz; se l'operazione risponde a determinati parametri (che dipendono dal valore professionale di chi “va in scena”) siamo di fronte a una manifestazione culturale, altrimenti se ne occupi un altro assessorato.

E le competenze per fornire prestazioni di livello qualitativo adeguato esistono eccome in città, sia a livello artistico che manageriale. Che potrebbero collaborare con il Comune anche per quanto riguarda la progettazione degli spazi.
Chissà, sempre per fare esempi terra terra, se quelle competenze sono state sentite prima che si mettesse mano agli onerosi interventi di realizzazione del mega auditorium di Cappuccini, le cui spese di gestione appaiono proibitive per le dimensioni del pubblico potenziale che la nostra città può garantire alla musica. Oppure, per discutere di ciò che è ancora in fieri, di come sia possibile strutturare un altro grande spazio come l'Astra di modo da renderlo fruibile più di un paio di volte all'anno. Credo che chiedere agli operatori culturali accreditati in città (non sono una marea) se sia il caso di mettere dei sedili fissi oppure no, non sia determinante per stabilire se una certa scelta è di destra o di sinistra, ma sia utile ad evitare di costruire monumenti buoni solo al momento del taglio del nastro e poco più.

Ecco, se i candidati sindaci o i loro supporter iniziassero a ragionare su queste cose anziché tediarci sul valore ideologico del teatro dialettale contrapposto alla “cultura dei grandi eventi” avremmo tutti da guadagnarci. Tutti noi che quegli spettacoli andiamo a vederli, dico, e che ci piacerebbe votare su qualcosa di più degli slogan da volantino che ci “stressano” i tergicristalli in tempo d'elezioni.


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